La Gare Saint-Lazare è l’emblema del progresso industriale, della nuova civiltà dei viaggi più veloci.
Ma qui è rappresentata solo dal vapore nebuloso dei treni – che non vediamo. Una nuvola si espande contro le cancellate e le sbarre di ferro nero segmentano tutta la scena con grande maestria.
Come fosse una bambinaia, la modella Victorine Meurent, vestita di un sobrio blu profondissimo, posa seduta su una panchina. Ci guarda, con aria interrogativa.
Tra le mani tiene un libro e sulle ginocchia ospita un cagnolino addormentato.
La figlioletta di un amico, di spalle, posa con un elegante abito bianco. L’ampia gonna a falde larghe esalta un grande fiocco blu.
A lato, come dimenticato lì per caso, un grappolo d’uva.
I brani di bianco più mobili, realizzati con pennellata veloce, si alternano a campiture piatte e ferme. Il taglio ravvicinato, l’ambiguità dello sguardo della modella e l’assenza dello sguardo della bambina, raccontano un episodio quotidiano senza storia.
Com’era prevedibile, anche questa composizione fu condannata dalla critica coeva.
Burty, invece, comprendendo lo stile innovativo dell’amico, scriveva:
“Il movimento, il sole, l’aria tersa, i riflessi, tutto dà l’impressione della natura, ma della natura colta da un animo delicato e tradotta da uno raffinato”.
Qui la vita moderna viene rappresentata dall’occhio acuto e geniale di Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 – 30 aprile 1883), La ferrovia (Le Chemin de fer), 1872-1873, National Gallery of Art di Washington.
